Lo sai figlio.
L'inverno il suo rancore mai cancella
tante le cose oscure in questo mondo strano
alle erbe si nega la pioggia benefica
e sui campi marcisce il sole pur se sveglio appare.
Sporca l'anima degli alberi e il fogliame
la fuliggine del tempo e il sottosuolo
di questa riva infame
apre alla vista nostra le ignote sue budella.
Ricordi figlio.
Erano corrosi i rilievi dei caseggiati vicini alla corsia
e indifferenti i Re Magi
passando di là videro sulle pietre e sugli angoli
del tuo destino
una rosa bellissima piegata e tre stupendi gigli
invocare il tuo nome a prima sera.
E sono andati via
senza segreti senza clamori senza voltarsi indietro
fingendo di cercare un altro Dio.
Vedi figlio.
Il grande tuo sogno si strinse alle cunette
dell'asfalto invernale
e contestò gli anni privi di senso che riflette
sul limbo delle usanze e dei costumi.
Ascolta figlio.
Con una lama al seno infissa
tua madre sfida la nomea dei patetici Numi
e inumidisce
l'immagine tua ad un alto palo crocifissa.
E Morfeo non risponde forse si vergogna.
Ora soltanto può ridere o gridare
oppure bestemmiare ma non può più farti male.
Pensa figlio.
Non lontano da questo dormitorio eterno
tra candide lenzuola e coperte da rimboccare
sopravvivono quattro anime dubbiose del futuro
e con i riccioli biondi da stendere
su ciò che non è più certo e mai più sicuro.
Nota figlio.
Tante facce anonime passano in fretta di qua
e non sanno d'essere spettri
o poveri ossi d'Universo sparsi o effimeri figuri
oppure ombre sbiancate
venute da lontano estranee al nostro sentire
e curve sul vuoto d'affetti e d'ignoranza.
Senti figlio.
Forti sono i battiti delle mie tempie le labbra
urlano sul mio volto scuro
perché dall'alto violaceo di bagliori
non scenda un volteggio d'ulne e di tibie rotte
di chi è già stato solo
un chicco di miglio in questo cavo impuro.
Ascolta figlio.
Prima che nell'etere suicida taccia il mio barlume
questo canto ti offro
pur se gelido appare tra le invernali brume
e intenso come il fischio dei merli
che ti chiedono quando verrai a trovarmi.
Sul palcoscenico
Sul palcoscenico senza quinte un branco d'orsi
danza e insegue lento un requiem pietoso.
Non urlate uomini
che siete assisi in platea pronti allo spettacolo.
Le danze si fanno varie e ricche d'illusioni
e al vostro cervello
impongono sagome di cipressi frastagliati
come giganti in una folle vendetta.
Il teatro è pieno di sordi lamenti e di ruggiti.
Molti sanno
che vergini erano le dee e le ninfe nei boschi
e sugli altari miti
i belati che sigillano la quiete dell'Eterno.
E voi
guardando il filo nero dello specchio
avete tutto il tempo per meditare e abbassare
il ventaglio dai rilievi del vostro petto
e risarcire gli attori
con sorrisi e teneri cenni di mani.
Vi prego uomini.
Non fermate questo grido che vola sul volto
del cielo colmo d'alterigia.
Vedete come ballano incoscienti gli orsi
e seguono le canzoni dello spartito.
Ruggiscono pure
per spaventare chi si ostina a non capire
che strano inganno è questa vita.
Dicono che questa è un dono una carità divina.
Invece è un atto di follia
che combatte visioni spente una traccia
pallida uno sprazzo in aria
un fru frù di foglie ai piedi d'una fonte
un rigo d'inchiostro con la sclerosi in capo.
Voi lo sapete uomini ch'è così è stato
da sempre e lo è tuttora.
Un battito d'ali nere un foglio bianco
spiegazzato
una scena orribile un urlo di risentimento
coagulato
nella miseria della commedia umana.
Nessuno di voi
potrà dubitare che questi occhi hanno visto
la tragedia umana.
La carne lacerata dagli artigli balbetta e scrocca le dita
per avvertire che di qui
è passato un intrepido che voleva svuotare il cuore
dalle ombre
che non possono brillare ma rompere le vene
e forse non ci è riuscito.
Ora il teatro è chiuso.
Gli orsi sono spariti dalle porte laterali e le fauci
non sono più spalancate.
Voi uomini di mondo non temete la polvere
che cambia di colore
i vostri abiti e dopo l'ultimo entusiasmo
si ripresenta il Nulla.
E voi dèi del Parnaso siate sinceri e accorti
nel cogliere
l'ultimo dolente grido dei nostri morti.
Inverni crocifissi
Muti i simulacri e sui frontoni antichi
s'appoggia
digrignando i denti la mia tarda età.
Si coprono di solitudine le panchine
e sui giornali usati luccica
come smeraldo l'ombra delle vecchie cose.
Ognuno nota i propri errori
e li conserva per portarli con sè altrove
tra sospiri e frivole ali di vento.
Dall'aurora fino al tramonto
tardo il tempo
rinnova l'angoscia nel suo canto il tuo viatico
offre agli uccelli
che lavano le zampe dentro l'aria pigolando
e curiosi volano e si nutre di palpiti e di semi.
E tu non mentivi
dicendo che dinanzi a te scorrevano
tre vite grandi stupende a meraviglia
che un amore di sposa ora conduce
con occhi pietosi verso altri lidi.
Tu non mi vedi figlio
ma dalla foto tra freschi fiori esposta
mi sorridi
perché in un lampo donasti la vita
ai virgulti del tuo ceppo caro
e sui platani ponesti il candido nido d'amore.
Ora strappare
petali alle rose per me è un grosso vizio
e non m'importa il tipo
che spennacchio e il colore o se appena
sono sbocciate o da poco sfiorite.
Come donne che partoriscono di notte
le mie mani non sanno la ventura.
C'è tanto affetto se è piccola la prole
tremendo da genitore
seguirla immatura fino all'ultimo passo.
Io lo so che partire
è un verbo che uccide come esporre la pelle
al respiro d'altiforni.
Non mi resta che guardare rami variegati
che al cadere di fronde
non hanno più segreti in questi inverni crocifissi.
La mammella della luna
Erano corti i capelli e socchiusi gli occhi
strappati dalla giovane carne
come ciotoli freschi di fiume tovaglie
imbandite le tue guance.
Ma era schiuma di rosso sangue quella
spalmata sulla strada
senza più aurore e senza più stagioni.
Falso fu il sole sul corpo tuo inerte
figlio e mia luce.
Persefone gelosa con un vestito nuovo
ti raccolse a braccia aperte
e ti nascose per sempre al volo delle rondini
al canto d'altre voci e ai colori d'altri Universi.
E ancora non vuole capire
che non servono più le chiavi alle tue porte
e l'ambulanza funesta
col fischio intristisce le divinità già morte.
Ora la luna trascina la sua mammella
sui bianchi fiori di sambuco
la sua luce raccoglie gocce e briciole amare.
Insegue una musica che nell'aria s'espande
e per non urlare
nella bocca dell'infausto tuo dio
serro continuamente le mie labbra.
Non trasuda più dalle pareti di casa la paura.
Tutto ormai ho perso.
A grappoli pendono i ricordi
e sulle tue parole mute batte il pugno mio
e la nuca si carica d'argentee chiome
e sul viso cresce la salgemma scura.
Grilli ormai e vespe ronzano
nella stanza senza sole gazze bianche e nere
accendono il becco sul silenzio vuoto.
Il silenzio della chitarra
Curvo sulla giovine carne
scorrere si vedeva il sangue del tuo dio
fluido e improvviso
la voce inaridirsi nel solco d'un addio
pronta a spalancarti il Paradiso.
Non hanno bevuto filtri d'amore
le notti e i giorni.
Una vita hanno atteso di millenni
per avvisarmi
al primo mattino che una cometa
era già caduta innocente
là dove come ghigno lo sguardo affiora
e il canto più non sente
l'amarezza che si fa piombo fuso.
Le pietre marciscono sulle tue ferite
e fuggono l'essenza del tuo io.
L'Oscurità sul suo seno materno
cercò una coltre pietosa alle tue spoglie
e sulla chitarra chiuse il silenzio.