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C'è tempo per mentire

Casa Editrice Guanda, Parma, 1964


     Dal risvolto della copertina

Le poesie di Vincenzo Policarpo, qui raccolte, appartengono ad una sfera morale puntigliosamente perseguita. L'itinerario della sua poetica si snoda da un iniziale desiderio ingordo e confuso di ogni bene o apparenza di bene ("Ho tanta voglia di essere felice"), prosegue per le ragioni sconcertanti della disillusione e approda al possesso di una fede guardinga, urata, decisa a resistere e a non lasciarsi mortificare da rese senza condizioni. C'è sempre tempo per mentire. C'è sempre tempo per confondersi con la folla, decisa ad essere pazzamente felice e che stravolge in questa sorridente fissità la natura dialettica che l'uomo s'è creato per innalzarsi sulla grigia realtà, tra ("Mostri di cemento/ riluttanti bizzarri smeraldi di civiltà/ sepolte").

 

Questa poesia - aperta formalmente ad incandescenze simboliste - agisce su questo sfondo e investe con una sua personalissima sprezzatura il nodo fondamentale della crisi spirituale dell'uomo contemporaneo.


 

 

 Penso che degli Allan ce ne saranno sempre su questa terra e dei Burton non ne mancheranno mai, onde la vita se pur si differenzia nella forma, rimane intatta nella sostanza e ci si affanna a cercare un adito alle nostre immaginazioni che non sempre riescono ad illudere la gente.

 

Caro Edgar, i popoli s'adoprano a volare gli spazi come se volessero sfuggire a questa sventura, ma non sanno che l'ombra più cupa, più misteriosa domina la loro mente e confonde i loro animi spingendoli a cercare quella felicità che solo nell'intimo del proprio io a volte si riesce a intravedere.

 

Ma tu Edgar ci sei riuscito, come Artur, come Anton, come Fiodor, come Vincent,come tanti altri, pur nella sofferenza fisica e non puoi essere contaminata dalla lurida puzzura delle comodità di questi Luculli, onde il tuo spirito s'innalza al di là delle fantastiche visioni e viene chiamato: Genio.

 

Cerco da te la forza, la costanza, il coraggio, Edgar, so che ne hai avuto molto e da ciò sentirò più viva la volontà di insistere.

 

Insisterò dacché avrò la forza d'imporre al divenire l'essenza dell'essere mio strano.  (Vincenzo Policarpo)

 

Misilmeri (Palermo) 1960-61


 

 


 Tentativo d'esistere
Ed. Paolo Toschi & C., Modena, 1968

 


 


 

 

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Sull'agave un apostrofo di luna
MEF L'Autore Libri Firenze, 2008

 
 

Prefazione di Michele Fuoco

 

    Brevi componimenti intensi, ricchi di voci di una multiforme esistenza: quella del poeta e, più in generale, dell'uomo. Sull'agave un apostrofo di luna è una raccolta di poesie che si pone come continuazione di altri due volumi pubblicati (uno dall' Editore Guanda, 1964) negli anni sessanta, per quell'aperta disponibilità di Vincenzo Policarpo verso temi eticamente integrati nella vita. La dimensione privatissima dell'autore si apre agli altri. Vibrante è l'emotività del poeta che, non trovando "più sogni da portare altrove", manifesta tutta l'ansia del domani e la voglia di gridare il disagio della sua nuova condizione.

   "Poesie scritte con rabbia", dice Policarpo che avverte tracce di sentimenti logori, speranze spente, sguardi di indifferenza persino per  i luoghi di riposo eterno, " ferite di terrore", il labile confine tra vita e morte.

   Anche le parole sembrano essere sorde alla dolcezza. E la poesia non può più essere concepita nella zona dell'imediatezza, ma pensata nello spazio della riflessione. La sua autenticità risiede nella commozione intellettuale, in variazioni e incroci sottili di parole per recuperi e slittamenti di significati diversi. Certi accostamenti linguistici possono apparire arbitrari, se non azzardati, ma è il valore del rimando a possibili livelli di messaggi che li rende legittimi. Le combinazioni su cui si articola il verso producono una straordinaria sintesi verbale, capace di animare la poesia di sensi sconosciuti.                                  .

    Il linguaggio, costruito su relazioni logiche ed emotive, ama talvolta temi quasi inconciliabili in una concatenazione di rapporti mai casuali, non solo per rinnovare il tessuto lirico, perché esso risulti più ampio nelle risonanze, ma anche per nuove avventure conoscitive dell'uomo, con un maggiore scavo interiore. In una alchimia di termini la poesia sa acquistare una sorta di preziosità ermetica per adeguarsi alla complessità dei temi di cui il poeta sente la presenza, nella necessità di comunicarli, senza compiacimenti estetici, con una parola che va al di là delle apparenze, facendosi evocazione simbolica, segreta identità con gli elementi narrati.

    La poesia  diventa luogo di verifica di esperienze diversificate, con una analisi e interrogazione su vicende di   carico emozionale, su memorie anche culturali,  sull'esaltazione della natura violata, sul dramma di una redenzione sognata, sul destino dell'uomo e del mondo. Il poeta porta tutta la sua passione per cercare " un cielo pieno d'amore " o " un atto d'amore pudico", ma scopre  " un velo di tristezza antica ", un senso di inquietante silenzio, di malinconia che rende grigi anche i sogni.

    Tanti differenti motivi devono la densità e la singolarità di significato anche alla complessità delle relazioni inattese, alle articolazioni e varianti distinte dei termini in una scrittura che riesce a riassumere e ad amalgamare pensieri, sentimenti, affetti in uno stile che è tutt'altra cosa che un ornamento. Uno stile che il poeta anima di entusiasmo e di ardore. Di rabbia.

 



 

Ho percorso sentieri di discorsi amari, ho lavorato con mani di cemento, 
ho coltivato campi di malinconia, ho raccolto piogge d'acide parole, 
ho strapazzato a denti stretti brandelli di nuvole, ho sudato a spigolare, 
ho ammirato il colore del silenzio ed ascoltato il tintinnio della solitudine, 
ho bevuto gocce di rancore, sezionato ruvide emozioni e distrutto sogni d'infanzia.

Dopo tanti anni, torno sul luogo del delitto, con la speranza chequesta 
raccolta di versi mi sia di giovamento nel tempo che mi resta, e smorzi 
la rabbia che ancora mi rode dentro il cuore.

(Vincenzo Policarpo, Modena 2008)



 



 

 

 


Da: V. Policarpo, Sull'agave un apostrofo di luna, 
MEF editori, Firenze, 2008

 



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come oggi, da sempre
Edizioni Artestampa di Modena, 2011



              Introduzione di Michele Fuoco

      Non più lusinghe. è tempo per Vincenzo Policarpo di verificare il senso della sua vita, spesso delusa dall'umanità, dal mondo che è assurdo, popolato di irrazionalità. Il limite sovrasta l'uomo e il poeta ne avverte il peso e registra sconfitte nel consumo della sua vicenda esistenziale che la raccolta di poesie "come oggi, da sempre" mette a nudo. Nell'assoluta mancanza di ogni consolatoria certezza si concretizzano ansie, trepidazioni, smar­rimenti, inquietudini e angosce, si fa voce la dolorosa solitudine, l'abbandono al nulla, l'aridità della vita. Motivi che risuonano nei versi " Come ala mozza o canna secca /di fiume", " le guan­ce scarne /e i cavi occhi nascosti /nella pece...", " E l'anima ti serve,/ ormai, più delle pupille /per guardare /il mondo, dacché gli occhi /tuoi non hanno più umore. "

    Si afferma il coraggio, la necessità di denunciare cedimenti, ferite mai chiuse, inconsce paure, percependo la solitudine come deserto che l'uomo si crea. Una solitudine che scaturisce dalla scoperta del vuoto e dal rifiuto della consolazione, nel dominio del silenzio dove si avvera il colloquio con se stesso e anche con il mondo, pur in un rapporto mai ospitale, affabile, tanto da far dire al poeta " Sguardi poggiati all'uscio / e l'aria greve nella via ", "hanno lunghe pause/ i silenzi nostri. Spesso, / giorni interi, a volte, settimane."

    E quel triste sentimento del tempo, che percorre tutta la silloge, si pone nei giorni che svaniscono come continua consumazio­ne dell'esistenza. Tempo tramato di fantasmi memoriali, quasi persecutori, che consentono di esaminare i ricordi nel sapore " d'acqua salmastra, / di coltri disfatte, di strusci, / d'ombre, di dubbi e d'amore." I sogni si infrangono come castelli di sabbia ("Nel vuoto di memoria grani / diventano i silenzi, ciabatte / di castagno le inerti mani.") e perduto in una sorta di labirinto, il poeta percepisce l'incapacità di amare ("E, spesso, le anime sole / non sanno accendere / il sacro fuoco dell'amore"). E la condizione di disagio dell'autore si allarga all'universo, dove resta "senza blu il mio cielo", "questa scala / è una strada lunga d'aria, / dove cespi d'ortiche / gareggiano con le rose /...", "salgono figure sfocate, / ..., scendono piogge malate, / le onde del mare / sono gradini di tristezza."

 

    Il verso trattiene un forte sapore di amarezza, di sconforto radicato nel concreto terreno della storia di Policarpo che scorge un'assenza di luce, ombre senza pur flebili illuminazioni. " Peso, ormai, non hanno / queste mie brevi parole, / sono rivestite di niente / e non affermano nulla."

 

    Ma non si può pensare che i versi che  " odorano / di cemento e di ortiche ", siano senza valore di senso. Si assiste, piuttosto, in molti casi, a componimenti di fulminea sintesi epigrammatica, con una rigorosa selezione di parole cariche di significato che si intridono di umori malinconici, raggiugendo maggiore forza e più intensa emozione nel porsi come interrogazione sulla condizione umana, difficile pace interiore, traccia di sentimenti logori, palpito e brivido del quotidiano, tensione verso l'ignoto e persino come desiderio di luce e calore impossibili.

 

    Nell'essenzialità dello stile la parola, che acquista, talvolta, potenzialità di ritmizzazione dalla disposizione figurale del verso per un uso più ricco del registro linguistico, viene rivissuta nelle sue risonanze infinite, tessendo più saldi legami con l'esistenza e caricandosi anche di peso simbolico. E' la parola, che assume grandezza poetica nell'esprimere lucida coscienza d'indagine senza speranza dell'autore, la sola a poter testimoniare dell'assurda verità dell'uomo.

 

    

 

 


Poesie inedite


L'inverno non cancella

Lo sai figlio.

L'inverno il suo rancore mai cancella

tante le cose oscure in questo mondo strano

alle erbe si nega la pioggia benefica

e sui campi marcisce il sole pur se sveglio appare.

Sporca l'anima degli alberi e il fogliame

la fuliggine del tempo e il sottosuolo

di questa riva infame

apre alla vista nostra le ignote sue budella.

 

Ricordi figlio.

Erano corrosi i rilievi dei caseggiati vicini alla corsia

e indifferenti i Re Magi

passando di là videro sulle pietre e sugli angoli

del tuo destino 
una rosa bellissima piegata
e tre stupendi gigli

invocare il tuo nome a prima sera.

E sono andati via

senza segreti senza clamori senza voltarsi indietro

fingendo di cercare un altro Dio.

 

Vedi figlio.

Il grande tuo sogno si strinse alle cunette

dell'asfalto invernale

e contestò gli anni privi di senso che riflette

sul limbo delle usanze e dei costumi.

 

Ascolta figlio.

Con una lama al seno infissa

tua madre sfida la nomea dei patetici Numi

e inumidisce

l'immagine tua ad un alto palo crocifissa.

E Morfeo non risponde forse si vergogna.

Ora soltanto può ridere o gridare

oppure bestemmiare ma non può più farti male.

 

Pensa figlio.

Non lontano da questo dormitorio eterno

tra candide lenzuola e coperte da rimboccare

sopravvivono quattro anime dubbiose del futuro

e con i riccioli biondi da stendere

su ciò che non è più certo e mai più sicuro.

 

Nota figlio.

Tante facce anonime passano in fretta di qua

e non sanno d'essere spettri

o poveri ossi d'Universo sparsi o effimeri figuri

oppure ombre sbiancate

venute da lontano estranee al nostro sentire

e curve sul vuoto d'affetti e d'ignoranza.

 

Senti figlio.

Forti sono i battiti delle mie tempie le labbra

urlano sul mio volto scuro

perché dall'alto violaceo di bagliori

non scenda un volteggio d'ulne e di tibie rotte

di chi è già stato solo

un chicco di miglio in questo cavo impuro.

 

Ascolta figlio.

Prima che nell'etere suicida taccia il mio barlume

questo canto ti offro

pur se gelido appare tra le invernali brume

e intenso come il fischio dei merli

che ti chiedono quando verrai a trovarmi.

 

Sul palcoscenico

Sul palcoscenico senza quinte un branco d'orsi

danza e insegue lento un requiem pietoso.

 

Non urlate uomini

che siete assisi in platea pronti allo spettacolo.

Le danze si fanno varie e ricche d'illusioni

e al vostro cervello

impongono sagome di cipressi frastagliati

come giganti in una folle vendetta.

 

Il teatro è pieno di sordi lamenti e di ruggiti.

Molti sanno

che vergini erano le dee e le ninfe nei boschi

e sugli altari miti

i belati che sigillano la quiete dell'Eterno.

E voi

guardando il filo nero dello specchio

avete tutto il tempo per meditare e abbassare

il ventaglio dai rilievi del vostro petto

e risarcire gli attori

con sorrisi e teneri cenni di mani.

 

Vi prego uomini.

Non fermate questo grido che vola sul volto

del cielo colmo d'alterigia.

Vedete come ballano incoscienti gli orsi 

e seguono le canzoni dello spartito.

Ruggiscono pure

per spaventare chi si ostina a non capire

che strano inganno è questa vita.

Dicono che questa è un dono una carità divina.

Invece è un atto di follia

che combatte visioni spente una traccia

pallida uno sprazzo in aria

un fru frù di foglie ai piedi d'una fonte

un rigo d'inchiostro con la sclerosi in capo.

 

Voi lo sapete uomini ch'è così è stato

da sempre e lo è tuttora.

Un battito d'ali nere un foglio bianco

spiegazzato

una scena orribile un urlo di risentimento

coagulato

nella miseria della commedia umana.

Nessuno di voi

potrà dubitare che questi occhi hanno visto

la tragedia umana.

La carne lacerata dagli artigli balbetta e scrocca le dita

per avvertire che di qui

è passato un intrepido che voleva svuotare il cuore

dalle ombre

che non possono brillare ma rompere le vene

e forse non ci è riuscito.

 

Ora il teatro è chiuso.

Gli orsi sono spariti dalle porte laterali e le fauci

non sono più spalancate.

Voi uomini di mondo non temete la polvere

che cambia di colore

i vostri abiti e dopo l'ultimo entusiasmo

si ripresenta il Nulla.

E voi dèi del Parnaso siate sinceri e accorti

nel cogliere

l'ultimo dolente grido dei nostri morti.

 

Inverni crocifissi

Muti i simulacri e sui frontoni antichi

s'appoggia

digrignando i denti la mia tarda età.

Si coprono di solitudine le panchine

e sui giornali usati luccica

come smeraldo l'ombra delle vecchie cose.

 

Ognuno nota i propri errori

e li conserva per portarli con sè altrove

tra sospiri e frivole ali di vento.

Dall'aurora fino al tramonto

tardo il tempo

rinnova l'angoscia nel suo canto il tuo viatico

offre agli uccelli

che lavano le zampe dentro l'aria pigolando

e curiosi volano e si nutre di palpiti e di semi.

 

E tu non mentivi

dicendo che dinanzi a te scorrevano

tre vite grandi stupende a meraviglia

che un amore di sposa ora conduce

con occhi pietosi verso altri lidi.

 

Tu non mi vedi figlio

ma dalla foto tra freschi fiori esposta

mi sorridi

perché in un lampo donasti la vita

ai virgulti del tuo ceppo caro

e sui platani ponesti il candido nido d'amore.

 

Ora strappare

petali alle rose per me è un grosso vizio

e non m'importa il tipo

che spennacchio e il colore o se appena

sono sbocciate o da poco sfiorite.

Come donne che partoriscono di notte

le mie mani non sanno la ventura.

C'è tanto affetto se è piccola la prole

tremendo da genitore

seguirla immatura fino all'ultimo passo.

 

Io lo so che partire

è un verbo che uccide come esporre la pelle

al respiro d'altiforni.

Non mi resta che guardare rami variegati

che al cadere di fronde

non hanno più segreti in questi inverni crocifissi.


 

La mammella della luna

Erano corti i capelli e socchiusi gli occhi

strappati dalla giovane carne

come ciotoli freschi di fiume tovaglie

imbandite le tue guance.

Ma era schiuma di rosso sangue quella

spalmata sulla strada

senza più aurore e senza più stagioni.

 

Falso fu il sole sul corpo tuo inerte

figlio e mia luce.

Persefone gelosa con un vestito nuovo

ti raccolse a braccia aperte

e ti nascose per sempre al volo delle rondini

al canto d'altre voci e ai colori d'altri Universi.

E ancora non vuole capire

che non servono più le chiavi alle tue porte

e l'ambulanza funesta

col fischio intristisce le divinità già morte.

 

Ora la luna trascina la sua mammella

sui bianchi fiori di sambuco

la sua luce raccoglie gocce e briciole amare.

Insegue una musica che nell'aria s'espande

e per non urlare

nella bocca dell'infausto tuo dio

serro continuamente le mie labbra.

 

Non trasuda più dalle pareti di casa la paura.

Tutto ormai ho perso.

A grappoli pendono i ricordi

e sulle tue parole mute batte il pugno mio

e la nuca si carica d'argentee chiome

e sul viso cresce la salgemma scura.

Grilli ormai e vespe ronzano

nella stanza senza sole gazze bianche e nere

accendono il becco sul silenzio vuoto.

 


 

Il silenzio della chitarra

Curvo sulla giovine carne

scorrere si vedeva il sangue del tuo dio

fluido e improvviso

la voce inaridirsi nel solco d'un addio

pronta a spalancarti il Paradiso.

 

Non hanno bevuto filtri d'amore

le notti e i giorni.

Una vita hanno atteso di millenni

per avvisarmi

al primo mattino che una cometa

era già caduta innocente

là dove come ghigno lo sguardo affiora

e il canto più non sente

l'amarezza che si fa piombo fuso.

 

Le pietre marciscono sulle tue ferite

e fuggono l'essenza del tuo io.

L'Oscurità sul suo seno materno

cercò una coltre pietosa alle tue spoglie

e sulla chitarra chiuse il silenzio.



 

 
 
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